mercoledì 27 agosto 2008

Olimpiade italiana: i numeri dell\'atletica

Pechino 2008, Olimpiade dell'atletica italiana. I numeri sono questi, e vale la pena elencarli subito, per offrire la possibilità a tutti di prenderne visione. Due medaglie (l'oro di Alex Schwazer, il bronzo di Elisa Rigaudo); due finalisti tra i primi otto, ovviamente medaglie a parte (Ivano Brugnetti, quinto; Clarissa Claretti, settima). Il che, ci porta alla cifra di quattro finalisti: uno in meno di Atene 2004, ed in definitiva il punto più basso del dopoguerra (peggio abbiamo fatto solo nel 1928 e in alcune delle edizioni precedenti). Punti totali collezionati dalla squadra italiana a Pechino 2008: venti, sette in meno di Atene 2004, uno solo in più di Monaco 1972, che resta il fondo del pozzo dal 1948 in avanti (altrimenti, dobbiamo tornare ancora ad Amsterdam 1928). Curiosità, i venti punti del 2008, equivalgono a quelli messi insieme a Helsinki 1952, quando centrammo il primo dei tre titoli sui 50km di marcia (con l'immenso Dordoni). Quattordicesimo posto nel medagliere (dietro, tra le altre, ci sono Francia, Germania e Cina); ventesimo nella classifica a punti (con le tre suddette tornate a precederci). Insomma, per sintetizzare: ci sono seri, concreti elementi di insoddisfazione. Nei numeri, non nelle parole, e dunque difficilmente opinabili. D'altra parte, però, ci sono stati anche fatti positivi, nei giorni della rassegna cinese, e non sarebbe giusto ometterli per sottolineare il solo fatto numerico. Tre record italiani (due messi a segno da Libania Grenot nei 400 metri, 50.87 e 50.83; il 9:27.45 di Elena Romagnolo nei 3000 siepi); ben sei atleti ammessi alla finale, piazzatisi poi tra il nono e il dodicesimo posto (tutti dalla pista e dalle pedane: ad Atene erano stati tre, provenienti invece solo dalla strada, ferma a zero in questo caso). Citiamoli, in ordine sparso: Antonietta Di Martino (alto), Elena Romagnolo (3000 siepi), Chiara Rosa (peso), Giuseppe Gibilisco (asta), Filippo Campioli (alto), Christian Obrist (1500). Un azzurro, proprio Obrist, nuovamente in una finale dei 1500 metri 24 anni dopo il Riccardo Materazzi di Los Angeles 1984 (due nomi, tanto per dare la misura dell'impresa: Franco Arese e Gennaro Di Napoli; non c'erano mai riusciti). Claudio Licciardello ed il suo 45.25 delle nove del mattino, miglior prestazione italiana promesse, secondo tempo italiano di sempre, a soli 6 centesimi dal record di Andrea Barberi. La finale mancata da Libania Grenot per 20 centesimi (che se si fosse corso sui 405 metri, vista la rimonta, sarebbe lì, oggi, a raccontare l'impresa). Fatti, non parole; esattamente come quando si sono elencati i guasti della spedizione.

Passando alla fase interpretativa, vanno sottolineati alcuni aspetti. Primo: Schwazer a parte, al contrario di quanto avvenuto un anno fa a Osaka (quando andarono tutte a segno) le cosiddette "punte" non hanno mantenuto le premesse. In particolare, Andrew Howe e Antonietta Di Martino, vicecampioni del mondo in carica, e finiti stavolta lontano dalle medaglie. Il primo (addirittura fuori dalla finale) perché condizionato dai troppi infortuni patiti in stagione; la seconda, al termine di un'annata fisiologicamente inferiore ad un 2007 fantascientifico. Secondo aspetto da evidenziare: tanti, troppi atleti, per ragioni diverse, hanno raggiunto l'Olimpiade in uno stato di forma incredibilmente non all'altezza, collezionando in qualche caso proprio a Pechino la peggior prestazione stagionale (e qui le responsabilità sono da ripartire equamente tra i tecnici personali e quelli che li hanno avuti sotto controllo, senza riuscire a valutarne o modificarne la condizione, nei raduni preolimpici). Altri atleti, infine (terzo e ultimo punto), hanno dimostrato sul campo una fragilità agonistica sorprendente, che affonda probabilmente le radici in una esperienza troppo "casareccia", da meeting di quartiere. Decisamente incompatibile con il massimo proscenio mondiale. Per loro, un solo rimedio: basta gare "friendly", e via, valigia alla mano, nelle riunioni di seconda serie in giro per l'Europa, come si fa, per esempio, nel tennis (dove nei Challenge ci si scanna ogni giorno, guadagnandosi il posto gratis in albergo con le vittorie sul campo). Non è che tutti debbano andare solo a Zurigo.

Urge una analisi attenta, serena, e da effettuarsi non a caldo. Perché una sterzata va data, senza ombra di discussioni. Tagliando rami secchi (di ogni genere) e lasciando respirare le parti vitali della pianta, che esistono e hanno il diritto di vedere la luce. Per chiudere il cerchio, e lasciando ad altri le analisi politiche (bum! ci vorrebbe Totò col suo immortale "...ma mi faccia il piacere..."), torniamo al contesto: 37 paesi hanno conquistato medaglie a Pechino (46 un anno fa ai Mondiali di Osaka), mentre 61 sono riusciti a piazzare almeno un atleta nei primi otto classificati (66 nel 2007). Riflessione partigiana (dell'atletica): attendiamo (senza ansia) i dati delle altre discipline olimpiche.

m.s.

Nella foto, l'arrivo al traguardo di Alex Schwazer, oro olimpico dei 50km di marcia (Giancarlo Colombo per Omega/FIDAL)

fidal.it

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